Questo articolo è stato pubblicato su ALEA Bulletin 6/2, 2018.

Recentemente ho avuto un breve scambio di email con il dr. Carlevaro e il presidente Maurizio Avanzi. Il collega svizzero poneva una questione di fine diagnostica, ovvero come avrebbero dovuto essere considerate le situazioni di gioco problematico al di sotto della fatidica soglia diagnostica del DSM (5 criteri su 10 per il DSM-IV o 4 criteri su 9 per il DSM-5). Questioni di lana caprina? Non mi sembra, dato che nella pratica clinica non è infrequente trovarsi di fronte a persone non propriamente diagnosticabili come giocatori patologici.

Innanzi tutto andrebbe chiarito che la stessa rilevazione della presenza dei criteri diagnostici DSM non è operazione banale. In un suo testo, Ladouceur e Coll. (2000) dedicano una dozzina di pagine alla descrizione dei dieci criteri DSM-IV e alla loro valutazone. Comunque in un approccio di sanità pubblica (Korn e Shaffer, 1999) è necessario non solo riconoscere e trattare gli individui e famiglie nei quali il gioco ha assunto una deriva francamente patologica, ma guardare anche al fenomeno dell’azzardo nella sua globalità, nel complesso di sfumature di gravità che sono presenti nella popolazione generale. D’altro canto la definizione precisa del disturbo diventa il problema centrale degli studi di prevalenza sulla popolazione, ed è anche il problema centrale del sistema diagnostico DSM. Quest’ultimo infatti è categoriale: ogni sintomo (criterio) ha lo stesso peso ed è necessario un numero minimo di sintomi per poter far scattare la diagnosi. O si è dentro, o si è fuori. Tale operazione, benché necessaria, resta comunque un artificio.

Sul piano clinico il problema può essere formulato nel seguente modo: se un giocatore presenta 3 criteri anziché 4, va trattato? Come vanno considerati i giocatori sotto soglia in cui loro stessi o più frequentemente le loro famiglie chiedono un trattamento?

Ci sono situazioni in cui questa differenza conta: ad esempio se un giocatore ha problemi legali, avere o meno una diagnosi può fare la differenza. Oppure (ma fortunatamente non è il caso del nostro Paese) la diagnosi è condizione per la rimborsabilità delle spese per la cura. Gli operatori delle dipendenze sanno bene che, al di sotto della categoria diagnostica del disturbo di dipendenza, nel DSM-IV esisteva quella del disturbo di abuso, ovvero una forma di problematicità attenuata. Nel caso del gioco d’azzardo è curioso che non si sia provveduto in modo simile, nemmeno in occasione della collocazione del gioco patologico nel nuovo capitolo dei disturbi di addiction. L’abbassamento della soglia diagnostica da 5 a 4 criteri non appare certamente sufficiente per una soluzione adeguata, né ad onor del vero è finalizzato a tale scopo. Il DSM-5 appare piuttosto laconico sull’argomento, limitandosi a riconoscere l’esistenza di soggetti che presentano problemi e che non soddisfano pienamente i criteri diagnostici necessari. Chi si occupa del problema dà per scontato che il proprio campo d’azione sia rivolto all’intero spettro di gravità, dal momento che gli interventi possono  essere “spalmati” dalla prevenzione universale ai trattamenti specialistici. In un sistema diagnostico categoriale, una diagnosi per le situazioni di gravità attenuata o minore potrebbe essere utile e maggiormente adeguata alla realtà clinica che, per sua natura, si sfuma in un continuum.

Se da un lato abbiamo abbastanza chiaro a che cosa corrispondano termini come “gioco d’azzardo patologico” o “disturbo da gioco d’azzardo”, molto meno chiaro è il concetto di “gioco problematico”. Sebbene di largo utilizzo in letteratura, esso mostra due accezioni differenti: a) lo spettro di problemi azzardo-correlati in una popolazione, dai più attenuati ai più gravi, ad un estremo del quale si collocano i soggetti sopra soglia diagnosticabili come patologici; b) una forma moderata di problematicità del comportamento di gioco, non diagnosticabile come patologico poiché non sono presenti i criteri minimi richiesti (Volberg e Williams, 2014). In quest’ultimo caso, gioco problematico assume un significato analogo al concetto di abuso di sostanze.

L’approccio di salute pubblica consente all’operatore di organizzare un pensiero e un progetto per affrontare adeguatamente i problemi presentati. Considerazioni diverse dovrebbero essere fatte a proposito delle ricerche epidemiologiche. Qui diventa fondamentale la precisa definizione di “caso” e il confine entro il quale individuare accuratamente i soggetti patologici, separandoli dai non patologici. Purtroppo però diversi fattori possono concorrere a rendere difficile una rilevazione di prevalenza. Al di là infatti degli usuali problemi statistici inerenti, ad esempio, il campionamento e la rappresentatività, esistono specifiche questioni che riguardano gli strumenti (questionari): che cosa in realtà vanno a misurare e quale accuratezza (sensibilità e specificità) è possibile ottenere da essi. In questa sede non entreremo nei dettagli delle questioni tecniche, e ci limitiamo a sottolinearne l’importanza. Nel contesto italiano è facile emergano aspre polemiche relativamente alla diffusione più o meno marcata del gioco patologico: è accaduto in passato e facilmente accadrà di nuovo in futuro. Il gioco d’azzardo legale infatti chiama in causa non solo la lobby dell’industria, ma anche direttamente lo Stato cui spetta circa il 50% dei ricavi al netto del montepremi erogato. In questo contesto le discussioni metodologiche assumono di necessità anche valenza politica. A fronte di interessi contrapposti, il fatto di utilizzare una metodologia di studio con una soglia elevata o al contrario bassa, può essere più utile ad alimentare il conflitto tra le parti piuttosto che a fornire dati realistici e scientificamente confrontabili. Ogni questionario di screening ha i suoi vantaggi e svantaggi, e tutti hanno dei punteggi cut-off oltre i quali il caso viene definito come patologico, pur se con accezioni e denominazioni differenti. Tuttavia, al di sotto di quella soglia non c’è l’assenza di problematicità. Poiché il fenomeno, nella popolazione generale, ha una distribuzione lungo uno spettro continuo di gravità progressiva, una rilevazione epidemiologica non dovrebbe fermarsi a misurare la mera prevalenza di casi patologici, comunque siano definiti, ma dovrebbe altresì mostrare anche la diffusione delle problematiche sotto soglia. Ciò aiuterebbe in una successiva valutazione dell’impatto (sociale e sulla salute) di questa problematicità, forse “attenuata” a livello della singola persona, ma probabilmente rilevante a livello di popolazione (Capitanucci, 2018).

Si sente pertanto l’esigenza di una graduazione dei livelli di rischio e di danno definiti in modo chiaro e condiviso, e che comprenda anche l’area al di sotto della soglia diagnostica. Shaffer e Coll. (1999) proposero una classificazione con l’intento di superare la confusione terminologica esistente in letteratura (giocatore di livello 1, 2 e 3), ma purtroppo senza definire con chiarezza i confini che delimitano tali categorie.

Tornando quindi alle considerazioni di Tazio Carlevaro, avere una definizione chiara dei livelli di gioco d’azzardo che parta dal cosiddetto livello zero (non gioco) fino ad arrivare alle condizioni di franca patologia, consentirebbe sia agli epidemiologi che al clinico di avere una migliore rappresentazione dello spettro di rischio e di problematicità. Tale modello sarebbe più realistico e vicino alla realtà rispetto alla semplice individuazione dei casi patologici. D’altro canto è anche bene evitare il rischio della eccessiva medicalizzazione: se un sistema diagnostico non fissa un confine tra normale e patologico, potrebbe passare il concetto che forme attenuate di problematicità corrispondano a forme attenuate di patologia. In altri campi dei disturbi del comportamento questa deriva è stata giustamente oggetto di aspre critiche.

Come uscirne? Non ho una risposta, ma una attenzione in questa direzione da parte sia dei redattori dei sistemi diagnostici, sia degli operatori sul campo, sarebbe auspicabile.

Bibliografia

Capitanucci D. (2018): Gioco d’azzardo: qualità della vita e danni collaterali. Alea Bulletin, 6/1:9-10.

Korn D.A., Shaffer H.J. (1999): Gambling and the  Health  of  the  Public: Adopting a Public  Health  Perspective, Journal of Gambling Studies, 15/4:289-365.

Ladouceur R., Sylvain C., Boutin C., Doucet C. (2000): Le  Jeu excessif: comprendre et vaincre le gambling, Les Editions de l’Homme. Ed. Ital. Il gioco d’azzardo eccessivo: vincere il gambling, Centro Scientifico Editore, Torino, 2003.

Shaffer H.J., Hall M.N., Vander Bilt J. (1999): Estimating the prevalence of disordered gambling behavior in the United States and Canada: a research synthesis, American Journal of Public Health, 89/9:1369-1376.

Volberg R.A., Williams R.J. (2014): Epidemiology. An International Perspective. In: Richard, Blaszczynski, Nower (Eds): The Wiley-Blackwell Handbook of Disordered Gambling, John Wiley and Sons, Chichester, 2014.


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