Una lettura commentata del lavoro di Petry et al., 2017.

Questo articolo è stato pubblicato su ALEA Bulletin, 7/1, 2019.

La diffusione dei problemi correlati al gioco d’azzardo e la richiesta di trattamenti sanitari sono fenomeni ormai presenti in molti Paesi. Negli ultimi 15-20 anni si sono moltiplicate le indagini relative a trattamenti psicologici e psicosociali. A distanza di 10 anni da una precedente review di Pallesen e Colleghi (2005) e di 5 anni dalla analoga Cochrane Review (Cowlishaw et al., 2012), Petry e Colleghe ripropongono una aggiornata e sistematica analisi delle ricerche sui trattamenti psicologici. Per i riferimenti bibliografici si rimanda al loro lavoro originale.

DI COSA SI TRATTA

Le ricercatrici hanno estratto gli studi di maggiore qualità utilizzando criteri standardizzati PRISMA (Moher, Liberati, Tetzlaff, Altman, & PRISMA Group, 2009). I criteri di inclusione sono stati: trattamenti solo psicologici, giocatori problematici (patologici + sottosoglia), randomizzazione e confronto di almeno 2 gruppi con un minimo di 25 partecipanti ciascuno. Le Autrici hanno proceduto quindi ad una revisione narrativa, descrivendo metodi e risultati dei 22 studi rispondenti ai requisiti di inclusione. Tali studi possono essere ricondotti a 5 tipologie di trattamenti.

COSA HANNO RILEVATO

  1. Terapie cognitive

Il focus delle terapie cognitive è posto sulle distorsioni cognitive del giocatore. Due studi del gruppo di Ladouceur hanno mostrato che un trattamento di almeno 20 sessioni ha dato risultati maggiori rispetto al gruppo di controllo in lista d’attesa. Il trattamento cognitivo in gruppo ha mostrato una migliore risposta rispetto al trattamento individuale, sia in termini di risultato finale che di aderenza e completamento del trattamento. Un studio australiano ha comparato il trattamento cognitivo con uno comportamentale (terapia di esposizione), mostrando una equivalenza di efficacia tra i due. I drop out in queste tre ricerche sono stati circa il 25-50% dei pazienti. Non ci sono informazioni sugli effetti a lungo termine.

  • Terapie cognitivo comportamentali (CBT)

Le CBT integrano interventi comportamentali e cognitivi. Tipicamente pongono il focus sulla gestione degli stimoli trigger e sulla ricerca di comportamenti alternativi all’azzardo. La costante ricerca di trattamenti efficaci a basso costo ha portato diversi ricercatori a valutare empiricamente l’impatto di workbook cognitivo comportamentali.

Petry ha comparato tre gruppi: 1) invio a gruppi di Giocatori Anonimi (GA) (gruppo di controllo); 2) GA + un workbook a metodologia CB autogestito dal paziente; 3) GA + workbook guidato con sessioni individuali da un operatore professionale. La frequenza a GA è risultata simile in tutti i gruppi, mentre le interruzioni del percorso sono risultate più frequenti nel gruppo autogestito rispetto a quello associato all’intervento professionale. Questo terzo campione ha ottenuto migliori risultati rispetto agli altri due. Nel follow up a lungo termine (12 mesi) tuttavia non si sono evidenziate differenze tra i tre gruppi.

In modo parzialmente analogo al precedente, una seconda ricerca statunitense non ha rilevato differenze significative tra l’associare o meno al workbook cinque sedute di supporto specialistico. Pur se il gruppo che ha usufruito del supporto ha mostrato un certo vantaggio nell’immediato, a più lungo termine non c’erano differenze tra i due gruppi. Inoltre la metà dei pazienti di entrambi i gruppi non hanno concluso il percorso.

In Australia non è stato possibile dimostrare differenze tra due gruppi trattati con CBT in setting individuale o di gruppo rispetto al gruppo di controllo in lista d’attesa: tutti e tre i gruppi hanno avuto un miglioramento, ma in misura sovrapponibile.

  • Interventi motivazionali associati o meno a CBT

Vista la difficoltà a coinvolgere e mantenere i giocatori in trattamento, l’introduzione di tecniche motivazionali sia da sole che integrate alla CBT è apparsa logica e opportuna. Uno studio americano ha comparato l’invio ai gruppi GA (gruppo di controllo) con il trattamento CB di Petry, comprensivo di una sessione di desensibilizzazione immaginativa, associato al colloquio motivazionale. Alla fine del trattamento, dopo due mesi, i due gruppi differivano significativamente a vantaggio del gruppo trattato professionalmente. Non ci sono però dati sugli esiti a lungo termine.

Un secondo studio americano ha comparato tre gruppi: a) controllo non trattato, b) una sessione di colloquio motivazionale e c) 4-6 sessioni di CBT in setting gruppale. I due gruppi trattati hanno mostrato vantaggi sul gruppo di controllo in termini di criteri DSM, e il solo intervento motivazionale ha effettivamente ridotto la frequenza di gambling.

Uno studio svedese ha comparato due trattamenti a un gruppo di controllo non trattato: quattro sessioni motivazionali individuali oppure otto sessioni CBT in setting gruppale. I due trattamenti hanno dimostrato di essere efficaci rispetto ai controlli, ma senza differenze tra loro, sia nel breve che nel lungo termine.

Un ulteriore studio di Petry e Colleghi ha comparato quattro gruppi: a) controlli non trattati, b) sessione breve (10 minuti) con consigli su come smettere di giocare, c) una singola sessione motivazionale, d) una sessione motivazionale più tre sessioni CBT. Nell’immediato, la sessione breve di consigli ha mostrato i migliori risultati, seguita dai due trattamenti motivazionali, con e senza CBT. A distanza di nove mesi il gruppi motivazionale + CBT mostrava un maggiore miglioramento anche se, a lungo termine, nessun trattamento è risultato superiore.

Sempre Petry e Colleghi hanno paragonato tre trattamenti: a) breve psicoeducazione sul gambling, b) sessione breve di consigli su come smettere di giocare (10 minuti), c) una sessione motivazionale più tre sessioni di CBT. Quest’ultimo trattamento ha mostrato i migliori risultati a breve e a lungo termine (2 anni), al prezzo tuttavia di elevati livelli di drop out.

Due ulteriori studi hanno valutato il solo intervento motivazionale, con risultati alterni. D’altra parte non è stato nemmeno possibile determinare se la presenza dell’intervento motivazionale iniziale ha effettivamente contribuito ai risultati ottenuti dal trattamento combinato con la CBT. In ogni caso viene sottolineato come una parte consistente di pazienti arrivi a concludere le terapie.

  • Interventi cognitivo comportamentali autoguidati

Il basso tasso di accesso e adesione alle cure è forse l’elemento che ha spinto i ricercatori a ricercare forme innovative di trattamento, autogestite dal paziente con il supporto cartaceo di un workbook oppure con un supporto digitale online. I percorsi i cura seguono usualmente principi della CBT.

Un primo studio canadese ha comparato al gruppo di controllo in lista d’attesa due trattamenti: CB workbook da solo oppure con un intervento telefonico di tipo motivazionale. Quest’ultimo ha dato i migliori risultati anche a distanza di due anni di follow up. Una estensione dello studio fu condotta aggiungendo ai trattamenti precedenti un terzo intervento costituito dal workbook più sette colloqui motivazionali telefonici eseguiti nel corso di 9 mesi. I migliori risultati sono stati ottenuti dai due gruppi che hanno associato le chiamate motivazionali. I gruppi tuttavia non mostravano differenze a un anno di distanza.

Uno studio statunitense ha testato un workbook che integrava contenuti motivazionali e di tipo CB. I pazienti sono stati randomizzati in tre gruppi: non trattato, solo workbook, workbook con una telefonata di istruzioni sull’uso del manuale. Nessuna differenza è stata rilevata dopo uno e tre mesi.

Altri studi hanno sostanzialmente confermato il positivo effetto a breve termine dell’intervento motivazionale purché somministrato con una sessione diretta o per via telefonica. Difficile tuttavia dimostrare effetti positivi sul lungo periodo.

  • Interventi brevi di feedback

Fornire feedback alle persone con consumi eccessivi li aiuta a esplicitare realisticamente il loro stesso livello di consumo e a compararli con i livelli mostrati dalla popolazione generale. Ciò tende ad aumentare la consapevolezza e motiva i consumatori eccessivi a moderarsi.

Tre studi hanno variamente confrontato gli interventi di feedback a condizioni di controllo, evidenziando risultati parzialmente positivi. L’impatto appare tutt’al più modesto a fronte tuttavia della facilità ed economicità di erogazione su larga scala.

COMMENTO

La ricerca empirica sui trattamenti psicologici (ma anche farmacologici) del disturbo da gioco d’azzardo ha finora mostrato risultati parziali, a breve termine, ed elevati livelli di drop-out.

La revisione di Petry e Coll. offre alcune indicazioni al clinico: efficacia nel breve termine dei trattamenti cognitivi e cognitivo-comportamentali, specie se associati ad un intervento motivazionale, e probabile utilità di workbook nei pazienti (presumibilmente) meno gravi.

Tuttavia restano sul tavolo alcuni elementi critici: a) la difficoltà all’accesso ai trattamenti, b) i numerosi drop out, c) l’incognita degli esiti a distanza. L’impatto sulla popolazione clinica dei trattamenti studiati resta quindi abbastanza modesto. D’altra parte fa sorridere lo sforzo di studiare metodi di cura che si propongono di trattare una forma di addiction spesso di lunga durata ed elevata problematicità con poche sessioni di psicoterapia nell’arco di qualche settimana. Gli studi non lo dicono, ma è ragionevole pensare che i miglioramenti ottenuti siano attribuibili ai pazienti meno gravi. Da sottolineare peraltro che anche i gruppi di controllo spesso mostravano miglioramenti “spontanei”. In ogni caso le metodologie di trattamento sottoposte a studio sono comunque ridotte e appartengono soprattutto alle aree cognitivo-comportamentale e motivazionale. Non vi sono dati di letteratura inerenti approcci differenti, ad esempio sistemico-relazionale o psicodinamico. Ciò può essere spiegato anche da oggettive difficoltà di tipo metodologico.

Vale la pena di sottolineare che se il clinico pratico prende in modo troppo adesivo i risultati della letteratura scientifica, potrebbe incappare in alcune “distorsioni del pensiero”. Alcuni elementi vanno tenuti presenti per decodificare correttamente i risultati degli studi.

Innanzi tutto sono da considerare le differenti mission del ricercatore universitario e dell’operatore sanitario: la priorità del primo è di fare scienza, di ricercare la “Verità”; quella del secondo è di curare il paziente e di sostenere la famiglia. Per fare scienza il ricercatore deve isolare la variabile studiata rispetto a vari fattori confondenti e standardizzare l’intervento; per curare la persona il clinico deve andare incontro ai diversi bisogni del soggetto e alla sua complessità, integrando varie tipologie di intervento in un approccio personalizzato. Appare quindi chiaro che quando la letteratura propone metodi di cura limitati, puntuali e di breve durata, il clinico dovrà inserirli all’interno di percorsi più complessi, tenendo conto anche dei principi generali di intervento clinico (si vedano per esempio i principi del NIDA per il trattamento dell’addiction).

Un secondo elemento da considerare è la popolazione che compone i gruppi di trattamento studiati: spesso vengono reclutati tra gli studenti universitari, nella popolazione generale, mediante avvisi pubblicati su giornali e riviste. Tali soggetti, pur se diagnosticati giocatori problematici, con ogni probabilità differiscono dalla usuale popolazione clinica dei servizi per vari altri fattori. Oltre a ciò, spesso negli studi non c’è una selezione dei pazienti sulla base della comorbilità, gravità, tipologia: il trattamento studiato viene applicato indistintamente.

Un terzo fattore di distorsione deriva da cosa viene interpretato come “miglioramento” clinico: conseguire un punteggio inferiore in un questionario di gravità non equivale necessariamente ad un risultato clinicamente soddisfacente per il paziente, la sua famiglia e il curante. Allo stesso modo una differenza statisticamente significativa non equivale sempre al raggiungimento di un livello di risultato clinico adeguato e desiderabile. Alcuni interventi citati sopra, ad esempio, mostrano di essere superiori ai controlli per il miglioramento di alcuni parametri quando invece non incidono per nulla sulla quantità di denaro scommessa o giocata.

Vista la carenza e i limiti dei dati empirici, nella pianificazione dei programmi di trattamento per il Disturbo da Gioco d’Azzardo il clinico dovrebbe mantenere un atteggiamento esplorativo e rigoroso; ciò significa che se da un lato è autorizzato ad esplorare nuove strade sulla base di una consistente e logica base teorica, di una ipotesi patogenetica, di un approccio globale coerente con i principi di trattamento dell’addiction, dall’altro deve essere supportato da un apparato valutativo sufficientemente adeguato a fornire dati sull’impatto dell’intervento implementato. Vanno ricavate informazioni utili non tanto per “fare scienza”, bensì: a) per curare adeguatamente i diversi sottogruppi di giocatori, utilizzando al meglio le risorse disponibili; b) per trattare le comorbilità; c) per limitare il fenomeno del drop out; d) per cercare di raggiungere l’ampia fascia di giocatori problematici che non arriva ai servizi.

In un campo complesso come il trattamento dei problemi azzardo correlati, una interpretazione troppo pedissequa della letteratura scientifica rischia di privare i pazienti e le loro famiglie di trattamenti adeguati.

Bibliografia

Cowlishaw S, Merkouris S, Dowling N, Anderson C, Jackson A, Thomas S. (2012). Psychological therapies for pathological and problem gambling. Cochrane Database Systematic Reviews, 11:CD008937.

Petry NM, Ginley MK, Rash CJ. (2017). A systematic review of treatments for problem gambling. Psychology of Addictive Behaviors, 31(8):951-961.

Moher D, Liberati A, Tetzlaff J, Altman DG; PRISMA Group (2009). Preferred reporting items for systematic reviews and meta-analyses: the PRISMA statement. PLoS Medicine, 6(7):e1000097.

Pallesen S, Mitsem M, Kvale G, Johnsen BH, Molde H. (2005). Outcome of psychological treatments of pathological gambling: a review and meta-analysis. Addiction, 100(10):1412-1422.

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