Considerazioni a margine dello studio di Nilsson e Colleghi (2020)

Il problema

Il disturbo da gioco d’azzardo (DGA) è una patologia che non coinvolge solamente i giocatori, ma anche le persone attorno ad essi: familiari, colleghi di lavoro, amici, famiglia allargata…

L’impatto sulla famiglia avviene su diversi fronti (Shaw et al., 2007) e i problemi azzardo correlati talora persistono anche per molti anni dopo che il paziente ha smesso di giocare. Le relazioni e la fiducia di base possono deteriorarsi e non ricucirsi più, ad esempio atteggiamenti critici e sospettosità che si protraggono per tempi lunghi. La vita affettiva e relazionale dei figli può essere minata gravemente, e così pure i loro progetti per il futuro. La vita familiare può patire conseguenze anche sul piano più prettamente sanitario: violenze intrafamiliari, abuso di sostanze, depressione e ansia, rischio di suicidio, disturbi fisici possono riguardare sia il giocatore che i propri familiari (Kalischuk et al., 2006). D’altro canto è ben noto che i familiari sono spesso i primi a ricercare aiuto e che la loro presenza nella presa in carico favorisce la permanenza in trattamento e la prognosi.

Va ricordato infine che in alcune famiglie si osserva paradossalmente un miglioramento delle relazioni e dei legami familiari grazie all’azione catalizzatrice dell’affrontare e risolvere assieme i problemi azzardo correlati. Da queste premesse ne consegue la comune prassi di coinvolgere i familiari nella presa in carico del giocatore e talora di riservare ad essi degli interventi specifici.

Tutto chiaro? Non proprio. Strano a dirsi, ma la ricerca empirica non è ancora riuscita a dare indicazioni univoche su come vada affrontata la sofferenza familiare.

Lo studio

Il recente lavoro di Nilsson e Colleghi (2020) confronta la terapia comportamentale di coppia (BCT) (O’Farrell & Fals-Stewart, 2006) e la terapia cognitivo-comportamentale individuale (CBT) erogate online. I presupposti generali sono noti: pochi giocatori chiedono il trattamento, la CBT ha quote di accettazione relativamente basse e di drop out relativamente elevate. Ci si aspetta che l’erogazione online delle terapie aiuti a superare il timore dello stigma e favorisca l’avvicinamento del giocatore e del familiare al trattamento. Ci si attende inoltre che il coinvolgimento dei familiari migliori i risultati terapeutici, l’accettazione e la permanenza in trattamento. Alcune ricerche precedenti sembrerebbero supportare l’ipotesi di lavoro, anche se per gli Autori mancano studi di qualità e con una numerosità adeguata. La sperimentazione ha coinvolto due gruppi (BCT e CBT) di ben 136 coppie ciascuno: l’Altro Significativo non necessariamente era un familiare. L’assegnazione della coppia a uno dei due gruppi è stata randomizzata. Poiché lo studio confrontava un trattamento di efficacia ormai dimostrata (CBT) ed un trattamento sperimentale (BCT), non è stato previsto un gruppo di controllo con interventi placebo.

I due trattamenti consistevano entrambi di 10 moduli erogati online con l’assistenza di un operatore che contattava settimanalmente il giocatore e, nel caso della BCT, anche il familiare. I moduli contenevano filmati, schede di testo, immagini ed esercizi. Il supporto dell’operatore avveniva per telefono e per email. Nel gruppo CBT solo il giocatore accedeva ai moduli e ai contatti dell’operatore, mentre nella BCT entrambi avevano accesso separatamente, pur se in alcuni moduli era richiesto che i due lavorassero assieme. La terapia comportamentale di coppia in particolare si basa su moduli e sessioni del tutto simili a molti altri interventi cognitivo-comportamentali, combinando interventi per l’addiction e interventi sulla relazione. L’intervento viene descritto più in dettaglio in un altro lavoro (Nilsson et al., 2016).

La valutazione, che ha riguardato sia giocatori che Altri Significativi, è stata condotta all’ingresso, al termine del trattamento e a distanza di 3, 6, 12 mesi dopo la conclusione. Come outcome primario sono stati considerati la frequenza di gioco, il denaro perso, e il numero di criteri diagnostici del DSM presenti negli ultimi 30 giorni. Altre variabili sono state individuate come indicatori di outcome secondario: aderenza al trattamento, depressione, ansia, abuso di alcol, qualità delle relazioni e conseguenze del gioco.

Risultati

I risultati sono presto detti: entrambi i gruppi hanno manifestato un miglioramento in tutte le misure rispetto alla situazione di partenza. I dati non depongono per la superiorità di un trattamento sull’altro sia sul versante del gioco che del benessere generale di giocatori e familiari. Anche la compliance non appare differenziarsi in modo significativo tra i due gruppi, anzi: sia i giocatori che i familiari del gruppo BCT hanno aderito alla valutazione di follow up a 12 mesi in misura minore (benché non in modo significativo) rispetto al gruppo CBT.

In sostanza i risultati ottenuti non confermerebbero l’assunto che trattare i familiari anziché il solo paziente migliori significativamente l’esito e l’aderenza al trattamento. I dati del gruppo BCT, seppur lievemente migliori, non depongono per un impatto rilevante. Oltre la metà dei familiari e dei giocatori in entrambi i gruppi non hanno concluso il trattamento. Una ulteriore sorpresa è derivata dall’assenza di differenze significative nelle misure dei familiari, considerato che quelli del gruppo CBT non hanno ricevuto alcun intervento. Ciò contrasta non solo con i dati derivanti da altri studi, ma pure con uno studio pilota dello stesso Nilsson e Colleghi (2018). Gli Autori ipotizzano che anche i familiari del gruppo CBT siano stati di fatto coinvolti, sia a livello del disvelamento da parte del giocatore, sia a livello del processo di screening iniziale e di assessment.

I risultati inaspettati e controintuitivi dello studio non possono essere liquidati facilmente: si tratta infatti di uno studio “robusto”, sia sul piano della metodologia (randomizzazione dei gruppi, misure di molteplici variabili), sia sul piano della numerosità dei due campioni. I limiti dello studio, sempre secondo Nilsson e Coll., semmai sono da ascriversi al lungo processo di screening, prima dell’avvio del trattamento, che potrebbe aver avuto un certo valore di sostegno per il familiare, e aver motivato il giocatore ad astenersi ancor prima dell’avvio del trattamento, riducendo così le differenze pre-post derivate dall’effetto terapeutico.

Il lavoro di Nilsson e Colleghi va apprezzato per almeno due motivi: primo, è uno studio ben fatto e ben preparato, come testimoniato anche da alcuni articoli preliminari; secondo, pubblica risultati negativi, e ciò purtroppo non è molto frequente nella letteratura scientifica. I risultati negativi sono altrettanto importanti di quelli positivi nell’avanzamento delle conoscenze, benché maggiormente frustranti per il narcisismo dei ricercatori: essi stimolano domande e ulteriori ricerche lungo strade nuove.

 Il commento di Nicki Dowling

Come avviene spesso per gli articoli importanti o controversi, la rivista Addiction ospita a margine dell’articolo di Nilsson e Coll. anche un commento di Nicki Dowling (2020) che ci aiuta a comprendere meglio alcuni aspetti messi in luce dallo studio originale. Dowling osserva che diversi altri interventi specificamente sviluppati per i familiari dei giocatori hanno mostrato una efficacia limitata e ciò farebbe pensare che non sia ancora chiara quale strategia utilizzare e quali obiettivi perseguire. Ci sono infatti due approcci fondamentali: 1) trattare la famiglia o il familiare per i suoi propri bisogni, indipendentemente dall’iter terapeutico del giocatore (il quale potrebbe perfino rifiutare le terapie); 2) mantenere il focus sul trattamento del giocatore per mezzo del familiare. Secondo uno studio recente (Rodda et al., 2019) i familiari preferiscono un approccio focalizzato sul paziente nel 50% dei casi, mentre il 28% desidera un sostegno personale, e il 22% un approccio misto. Benché lo studio di Nilsson e Colleghi sia chiaramente focalizzato sul giocatore, e nonostante abbia offerto garanzie di anonimità e facilità di accesso da casa, non ha mostrato i risultati attesi. La Dowling conclude auspicando maggiori ricerche in questo campo. Ma in quale direzione?

Cosa possiamo imparare da questo studio

Appare plausibile che la maggior parte dei familiari desiderino primariamente un trattamento efficace per il loro caro che gioca eccessivamente: è generalmente evidente ai loro occhi che tutti i gravi problemi patiti sono conseguenza dell’azzardo compulsivo. Tuttavia noi sappiamo che questo rappresenta spesso solo una parte della realtà. Certi problemi semplicemente non possono essere risolti con la cessazione del gioco: debiti, crollo della fiducia, qualità della vita coniugale, visione del futuro, progettualità per sé e per i figli, sono tutti fattori stressanti che continueranno a pesare sulle spalle del nucleo e che contribuiranno a far star male le persone. Inoltre alcune famiglie mostrano una organizzazione disfunzionale che talora alimenta stress, ricadute e sintomi.

Si può ipotizzare che dietro all’orientamento “gambler-focused” dei familiari a volte ci sia anche un meccanismo di negazione. Secondo questo punto di vista appare meno sorprendente che il trattamento comportamentale di coppia non abbia dato i risultati sperati: semplicemente potrebbe essere andato incontro solo ad una parte di bisogni. È probabile che l’approccio più utile sia quello misto, guarda caso quello meno desiderato, che introduce elementi di supporto emotivo al familiare e strumenti comportamentali focalizzati sull’azzardo il cui bilanciamento sarà da determinarsi in base ad un assessment specifico dedicato al familiare. In alcuni casi il supporto emotivo verrà richiesto esplicitamente, in altri sarà necessario un lavoro di accompagnamento alla presa di coscienza dei propri bisogni. Resta chiaro comunque che il punto di partenza è sempre la richiesta dell’interessato.

È difficile pensare che interventi brevi possano essere efficaci in situazioni complesse come quelle che normalmente accedono ai servizi dipendenze (nel lavoro di Nilsson si parla di 10 sessioni). In ogni caso moduli agili e di breve durata potrebbero essere d’aiuto in situazioni meno gravi (pensiamo ad esempio al modello stress-strain-coping-support di Copello e Orford, importato in Italia da Capitanucci e AND). L’erogazione di trattamenti attraverso canali multipli, tra cui Internet, potrebbero migliorare l’appeal del servizio.

Ovviamente sarà indispensabile un processo di valutazione che tenga conto degli aspetti relativi all’impatto dell’azzardo sulla famiglia. A questo proposito va sottolineato il fatto, ben noto agli operatori delle dipendenze, che i familiari spesso abbandonano i contatti tanto quanto i pazienti, come rilevato dallo stesso studio di Nilsson e Colleghi.

Appare opportuno che il servizio riservi gli interventi più onerosi ai casi in cui non ci siano altre opzioni e che si orienti secondo alcune linee operative generali:

  1. sviluppare trattamenti per i familiari di durata più breve, diversificati e orientati in modo flessibile sia a fornire strumenti per migliorare la consapevolezza e l’assertività, sia a supportare emotivamente i loro bisogni affettivi. Gli strumenti terapeutici principali saranno la psicoeducazione, le sessioni cognitivo comportamentali, la psicoterapia supportiva, e naturalmente il supporto sociale, quando necessario.
  2. Rendere disponibili canali di erogazione a distanza di interventi psicoeducativi, cognitivo comportamentali e supportivi (via mail, tramite portale web, videoconferenza, telefono).
  3. Dotarsi di opzioni per il trattamento più intensivo dei familiari più bisognosi erogabili in parte direttamente dal servizio, ad esempio psicoterapia della famiglia, di coppia, individuale, in gruppo, in parte anche al di fuori del servizio, ad esempio i gruppi di auto-mutuoaiuto o altri servizi sociosanitari (o eventualmente liberi professionisti).
  4. Nei trattamenti residenziali per giocatori, programmare forme di coinvolgimento e di supporto specificamente indirizzati al familiare.
  5. Pianificare un assessment adeguato a supportare la scelta tra le diverse opzioni terapeutiche.

Ovviamente tutto ciò non è ancora evidence-based in quanto, come riconosciuto da Dowling (2020), le ricerche in questo campo sono ancora limitate e per lo più gambler-focused. Purtroppo, come già visto in altri aspetti dei trattamenti, non sarà facile per la ricerca valutare, con metodologie robuste, strategie complesse di intervento. Non resta che rimboccarci le maniche e raccogliere un po’ di dati direttamente dal nostro lavoro per cercare di capirci qualcosa.

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